Casa Savoia
La Savoia (o Italia amore mio) è una regione montagnosa corrispondente all’incirca all’odierna Savoia, ma col tempo ha modificato i suoi confini arrivando a comprendere anche la Sardegna, per poi tornare ad occupare solo le montagne della Savoia, dov’è tuttora. Ma questo non frega a nessuno. Ciò che frega è che diede il nome alla casa Savoia.
Origini
Il Biancamano
Il capostipite dei Savoia fu Un Berto qualsiasi (da qualche parte, primo millennio d.C. - sempre dalla stessa parte, secondo millennio d.C.) detto il "Biancamano" per via della spregevole abitudine alla masturbazione, nomignolo assegnatogli dallo storico di corte Cabaretto circa sedici umberti[1] dopo, per cui il Biancamano non ha mai saputo di chiamarsi Biancamano e i contemporanei lo chiamavano semplicemente Un Berto Pippaiolo. Di lui, a parte questa caratteristica non si conosce molto in effetti, se non che era conte di Moriana (inutile cercarla su un atlante, nemmeno su uno francese) e vassallo dell’allora re del Borgogna Rodolfo III Il pigro, a sua volta vassallo dell'imperatore del Sacro Romano Impero Corrado II Il sadico, e che nel 1025 circa, davanti alla corte dei conti di Ginevra in seduta plenaria, si alzò in piedi e promise solennemente che nelle sue terre non ci sarebbero più stati latrocini e profanazioni di chiese, mungiture di vacche altrui e stupri. Ma essendo allora la sua contea poco più grande di casa sua, a tutti la promessa parve fin da subito una grandissima stronzata, tanto che si narra che il conte Guastalberto di Berna, dopo aver appunto commentato dicendo “Bella minchiata”, gli rapisse la moglie e gliela ciulasse appena fuori del giardino, giustificandosi poi con l’affermazione che era fuori dal suo regno.
Un Berto, che nonostante la dipendenza dall'onanismo aveva anche un certo orgoglio, dichiarò allora guerra alla Svizzera che essendo neutrale rifiutò di combattere e venne quindi invasa dall’intera cavalleria sabauda, formata da Un Berto, suo fratello L’Altro Berto, i cugini Al Berto, detto Berthold, Gilles Berto e Rob Berto, sua sorella e due rottweiler a cavallo. L’esito di questo primo conflitto fu la sparizione della Svizzera per circa ottocento anni, il confino di Adelaide (la moglie di Un Berto, detta anche Berta 357 magnum) a Cogne e l’ampliamento del giardino fino al Reno. Un Berto uscì così dall’anonimato e di qui in avanti verrà chiamato Un Berto I, perché fino allora non sapeva nemmeno questo. Il nome dei Savoia lascia le tenebre altomedievali e dà inizio a un imperialismo spietato che li porterà ad occupare l’Abissinia, circa centodue umberti dopo. In ultima analisi, l’Italia ha invaso l’Etiopia perché mille anni fa uno stronzo di svizzero s’è fottuto la moglie di Un Berto, Calvino porco.
Espansione
I Savoia si espandono non solo a nord ma anche a est, sud-est, sud, sud-sud e nord-nord; a ovest no perché a ovest c’erano già e sembrava una cazzata. Così salgono e poi scendono le montagne, conquistando la Valle d’Aosta e arrivando a Torino, più o meno fino a Via Nizza: i Savoia arriveranno, nel corso dei millenni, fino a Mogadiscio, ma non oltre Via Nizza. Grazie a matrimoni combinati con le figlie un po’ zoccole di re Arduino, l’allora marchese di Torino, re d’Italia e imperatore di Ivrea, i Savoia si impadroniscono del Piemonte e non lo smolleranno più, a parte a Napoleone, un tizio che nessuno aveva comunque invitato, fino a un referendum voluto dai radicali e truccato da Andreotti per conto di De Gasperi, della DC, della P2, degli americani, dei sionisti, dei gesuiti, dell’Opus Dei, della massoneria, dei Rosacroce, dei Templari, degli ebrei, degli egizi, degli alieni, di Dio e di Dario Fo, referendum che fece dell’Italia una repubblica e condannò all’esilio l’ultimo Savoia regnante, Umberto II, i suoi discendenti e le loro consorti – ma Vittorio Emanuele IV, detto Il Pappa, e suo figlio Emanuele Filiberto II, detto Il Figlio di Pappa, contestando l’esito (manipolato) del referendum si sono rivolti al TAR del Lazio e in attesa di una sentenza definitiva hanno continuato normalmente la numerazione.
Numerazione dei nomi e Legge Salica
I successori di Un Berto hanno nomi che, se non fosse per i continui parziali riordini, arriverebbero ciascuno al CMLXXI. I più ricorrenti, per dovere di riconoscenza[citazione necessaria], sono Pietro, Tommaso, Filippo, Barnaba, Giuda, Amedeo, Amedeo Aimone Filiberto Vittorio Emanuele Filiberto Carlo Alberto Vittorio Amedeo Maria Carlo Felice Carlo Emanuele, Renato Il Gran Bastardo (chiamato così appunto perché, in mille anni di storia, era l’unico a chiamarsi Renato e quindi a non avere almeno un numero, ragione per cui stava un po’ a tutti sul culo) e Sandro. Come si vede, a parte Maria come undicesimo nome di battesimo, non ci sono donne, questo perché la Legge Salica di Casa Savoia vietava appunto alle donne di ereditare la corona, lo scettro, il governo e anche gli album di figurine di famiglia, per cui se un monarca moriva lasciando solo figlie femmine le possibili opzioni per la successione, in ordine decrescente di fattibilità e anche un po’ cronologico, erano:
- a) rivolgersi a qualche cugino sfigato di un ramo collaterale sfigato che fino allora aveva passato il tempo a cacciare quaglie, molestare bambini e giocare a scopa;
- b) portare una delle figlie in qualche clinica per il cambiamento di sesso, ma questo solo a partire dal XX secolo;
- c) vestire e truccare una delle figlie come un uomo, fingendo che fosse un uomo;
- d) convincere qualche re straniero a fare il re di Savoia, a patto che non fosse francese e imparasse a dire “dûi puvrun muià ’nt l’öli”;
- e) adottare un bambino di sangue blu;
- f) rapire un bambino di sangue blu;
- g) invadere la Svizzera e sequestrare il figlio del re della Svizzera, che fino all’Ottocento non esisteva e quindi era un’ipotesi impraticabile, e poi la Svizzera era una Repubblica Confederata e al massimo poteva essere rapito un usciere;
- h) invadere la Svizzera se c’era – se no crearla – massacrare i repubblicani confederati e trasformarla in una monarchia, poi rapire il figlio del re;
- i) creare un figlio maschio in provetta, anche questo solo nel XX secolo;
- j) rapire un bambino qualsiasi e poi dipingergli il sangue;
- k) mettere sul trono un pupazzo;
- l) cambiare la Legge Salica e far regnare una cazzo di femmina;
- m) diventare una Repubblica Confederata, ma così la Savoia sarebbe diventata come la Svizzera, e non ci sarebbe più stata una buona ragione per invadere la Svizzera.
Se invece il monarca morto non lasciava nessun tipo di figlio, valevano le stesse opzioni tranne i punti b), c) ed l).
Il medioevo
Per meglio comprendere la storia della dinastia è tuttavia necessario citare almeno qualcuno dei suoi maggiori esponenti, quelli che hanno fatto la storia.
Nonostante quanto si è detto, Un Berto Biancamano ogni tanto sua moglie la trombava. Dalla loro unione nacquero:
- Amedeo I Coda, un conte che si ricorda solo per la brevità del suo regno e per la lunghezza del suo scettro – si dice che raggiungesse i ventisette amedei [2] anche se questo era il suo imponibile per l'Italia, avendone uno lungo trenta nella cassetta di sicurezza di una banca svizzera, che non essendoci più la Svizzera era una banca sabauda.
- Oddone I, il quale mise incinta una certa Adelaide, discendente del suddetto re Arduino, una notte che si era ubriacato di genepy (re Arduino). Si vide quindi costretto a sposarla e ad accettare come dote la marca di Torino contro la sua volontà, come sempre ripeteva, non sopportando di governare su un territorio posto così a sud. Così Oddone I, detto il Non Riconoscente, divenne margravio, ma anche questo titolo gli stava un po’ sulle palle.
Circa nel 1060-1070 d.C., con Pietro I detto Il Marchese e con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale di Moriana (che già allora nessuno sapeva più dove si trovasse, ma le tradizioni andavano comunque salvaguardate) del Daecreta Marchionalis Sabaudiae (DMS) i Savoia divennero, senza volerlo, marchesi, oltre che conti, anche se solo a Torino. Più volte tentarono di disfarsi della città, nei mille anni di regno ma ci riuscirono solo col sopracitato referendum per abolire la monarchia, tanto che qualcuno ipotizzò che, dietro ai palesi mandanti del complotto, surrettiziamente ci fossero i Savoia stessi, stanchi di regnare così a sud – un tipico caso di complotto per occultare un complotto.
Seguì poi un Un Berto II che, fattosi crociato, quando fu ora di partire davvero per la Prima Crociata disse che gli dispiaceva, ma aveva i muratori in casa e non poteva andare. Allora ci provò Amedeo III, nella Seconda Crociata, ma purtroppo arrivò solo fino a Cipro, dove morì di nostalgia per le sue vacche. Sembrava che i Savoia non potessero in alcun modo andare a mangiare kasher a Gerusalemme.
Da qui possiamo tranquillamente saltare un centinaio di anni e per assonanza passare a Pietro II, tanto nel frattempo non è successo un cazzo, se si escludono i continui, fastidiosi passaggi di Barbarossa con le sue armate puzzolenti, alcune occupazioni di giardini altrui e qualche sporadica ruberia di genepy.
Le due sole menzioni di un certo rilievo del regno di Pietro II, chiamato affettuosamente Il Piccolo Carlomagno o Lo Spaccamarroni – e non erano le castagne, di cui pure andava ghiotto – furono:
- un’invasione della Svizzera:
Tale invasione portò i confini della Savoia a lambire il parco di Platz Spitz, a Zurigo, che, come Via Nizza a Torino, sembrò un limite invalicabile. L’avanguardia di Pietro, due nani francesi sulle spalle di un dobermann, non riuscì ad andare oltre.
- la fissazione della capitale, nel senso che era una sua fissazione quella di non girovagare più per le montagne con la sua corte itinerante e quindi dover magari dormire in Svizzera e di porre una capitale stabile, in carne e ossa, a Chambery, nell’odierna Chambery.
Qualche anno dopo Pietro, che resta una pietra miliare della storia sabauda, regnò Amedeo V, detto anche Amedeov, che conquistò Ivrea e di cui il Cabaretto riporta l'abitudine di copulare sotto i portici di Porta Palazzo. Comunque, non si è mai appurato il perché, Amedeo fu chiamato Il Grande, o Amedeo Magno.
Il Conte Verde
Ma più grande di lui fu sicuramente Amedeo VI, che regnò dopo l’inutile Aimone (uno dei pochi Savoia a non avere numeri) e, al terzo tentativo sabaudo, partecipò finalmente a una crociata in Oriente occupando con una spedizione anfibia la cittadina di Gallipoli in Ottomania (si impadronì prima di Gallipoli in Puglia, ma quando gli fecero notare che non era quella giusta, a malincuore dovette abbandonarla) conquistò senza quasi spargere sangue Biella e Cuneo, le due province che fornivano la maggior quantità di formaggio e di pere, già che c’era invase un paio di volte la Svizzera per ricordare agli svizzeri chi era a comandare, fondò una messa a Losanna (non si sa bene cosa significhi, essendo linguaggio in codice) e l’ordine cavalleresco della SS Annunciata, la risposta dei Savoia ai Templari, che erano appena stati sciolti nell’acido e dai quali i Savoia ereditarono, si dice, l’Arca dell’Alleanza [3].
Inoltre annegò in un lago un potenziale usurpatore (fu il primo nella storia ad adottare la tecnica del waterboarding, anche se gli sfuggì di mano), organizzò ripetuti tornei medievali di cavalieri, visto che si era nel medioevo e si andava a cavallo, misurandosi in destrezza con veri neon knights inglesi (gli imbattibili Black Sabbath di Birmingham) [4] e incominciò, dando i primi segni di squilibrio, a vestirsi di verde e a pitturare di verde qualsiasi cosa gli stesse attorno, anche la carta igienica, tanto da venire appunto soprannominato Il Conte Verde e ad avere diritto a una statua tutta sua davanti al municipio di Torino, dove, coperto da una sciccosissima cotta di ferro, è ripreso nell’atto di trucidare senza pietà due prigionieri gallipolesi. Il Conte Verde sposò una tizia che si chiamava Bona, la quale era bona e gli cagò un altro Amedeo, Amedeo VII, detto Il Conte Rosso perché amava pitturare tutto di rosso in spregio al padre, pure la carta igienica del cavallo. Unici aspetti degni di nota di questo conte tutto sommato insignificante, rispetto al gigantesco, epico padre, che odiava kafkianamente, furono
- l’aver conquistato nel sangue e nelle budella sparpagliate la città di Nizza, solo perché odiava quel nome; da allora infatti Nizza venne ribattezzata Biella Marittima e i Savoia ebbero finalmente la loro spiaggia, oltre al giardino
- aver fatto cagare a sua moglie Bona, che era ancora più bona di sua madre, il terzo Amedeo consecutivo, Amedeo VIII, detto Il Conte Arancio o Conto Arancio.
Amedeo VIII
Il consiglio dei quattro saggi Protettori Innominabili Con Incontinenza Urgente ("i quat P.I.C.I.U.") della Savoia iniziò in effetti a preoccuparsi per questa palese carenza di fantasia nei nomi dei regnanti, oltreché nei colori, e, nel bene della dinastia, stabilì che il successore doveva chiamarsi Ludovico e che un eventuale prossimo Amedeo doveva essere l’ultimo, anche perché Amedeo X sarebbe risultato troppo anonimo come nome. Così il Conte Arancio, alias Amedeo VIII, alias il Pacifico per distinguerlo dall’Atlantico, circa nel XV secolo, approfittando del fatto che la Francia era momentaneamente impegnata da cent’anni nella Guerra dei cent'anni, conquistò Vercelli, riportando in patria prodotti sconosciuti come il fritto misto alla piemontese e le zanzare, ottenne da qualche imperatore l’agognato titolo di duca, tramite il Daecreta ducalia sabaudiae (DDS sulla Gazzetta Ufficiale di Moriana) iniziando a bullarsene al bar e soprattutto, a un certo punto della sua vita, essendosi svegliato male a causa di un incubo in cui quattordici bambini elvetici con i canini sporgenti e delle mele sulla testa lo inseguivano per le strade di Chambery brandendo delle picche e dei quadri e gridandogli “Ridacci gli orologi, ridacci gli orologi!”, cosa di cui lui naturalmente non aveva alcuna responsabilità, essendo colpa dello Spaccamarroni citato, venne improvvisamente eletto antipapa col nome di Felice V o W Felice. Difatti, mirando i Savoia ad ottenere tutte le cariche possibili dell’universo per una questione di prestigio internazionale – già nel Quattrocento sapevano che prima o poi avrebbero conquistato l’Abissinia, glielo disse il Cabaretto, e quindi il titolo imperiale – e non essendo per l’appunto riusciti ad impadronirsi del soglio pontificio, dovettero accontentarsi di un antipapa, anzi, questo titolo se lo inventarono loro, forse su suggerimento del Cabaretto stesso. Cabaretto che fu incaricato dallo stesso Pacifico di tracciare una genealogia con i controcazzi per la dinastia, pensando che a quel punto se la meritassero di diritto. Il buon cronista di corte pensò allora di far discendere i Savoia da Carlo Magno, Giulio Cesare, Alessandro il Grande, Serse I, Assurbanipal, Ramsete II, Ra e Dio. Ma Amedeo VIII, che era sì ambizioso ma non coglione, gli disse che forse era troppo, così che il Cabaretto fu costretto a dire la verità e ammettere che i Savoia discendevano dai merovingi, dalla Maddalena e quindi da Gesù di Nazareth. Dopotutto erano loro a possedere il Santo Graal, oltre che la Sindone e l’Arca - ragione per cui qualcuno incominciò a pensare che i Savoia in realtà fossero ebrei.
Il ducato
Amedeo IX fu chiamato invece Il Beato, perché si vantava di essere l’ultimo Amedeo della stirpe, e quindi credeva che tutti si sarebbero ricordati solo di lui, mentre di lui non si ricordò nemmeno sua sorella.
Essendo i successori Fili Berto I detto Il Cacciatore di Doti, Carlo I detto Il Guerriero della Notte e Carlo Giovanni Amedeo (un soprannome sembrava superfluo) morti troppo giovani o troppo stupidi per lasciare un segno – l’ultimo racchiuse entrambe le qualità, essendo un bambino ritardato di sette anni che oltre al segno non lasciò nemmeno figli – secondo l’opzione a) del sopramenzionato elenco, il ducato passò al vecchio prozio avvinazzato Filippo II che, dovendo per tradizione essere uno sfigato, fu detto Il Senza Terra. Egli generò dieci figli più l’illegittimo Renato il Gran Bastardo, già menzionato, la cui unica carica fu appunto quella di bastardo. Questo avvenimento fu ricordato dagli storici (pochi) come Prima Aberrazione Sabauda. Erede e figlio legittimo del Senza Terra fu invece Fili Berto II detto Il Bello, soprannome che si affibbiò da solo, il quale era troppo bello per essere vero e difatti morì quasi subito, lasciando il trono al fratello idiota Carlo II, detto appunto Il Buono (invece Il Brutto pare fosse una delle sorelle).
Carlo II regnò abbastanza umberti e fu abbastanza scemo da perdere tutti i territori che in cinquecento anni i suoi grandi avi avevano conquistato con abili negoziati, astuti inganni e massacri tremendi, oscillando com’era tradizione savoiarda, e anche un po’ tarallucciardovinesca, tra l’Impero di cui erano nominalmente vassalli – pur schifandolo – e la potenza stronza di turno, quasi sempre la Francia. Per questo, quando volevano picchiare qualcuno, se la prendevano con gli svizzeri. E seguendo questa politica presero spesso botte da orbi, ma menarono anche come disperati. Fu così che durante le guerre franco-spagnole del primo Cinquecento il territorio dei Savoia si ridusse al cesso di Carlo II, dove nessuno voleva entrare. Il tutto venne ricordato sempre dagli storici come Prima Spartizione della Savoia.
Emanuele Filiberto
Per risollevare le sorti sabaude ci volle un Emanuele Filiberto (tutto attaccato, come vaffanculo) detto Testa di Ferro perché non si levava mai l’elmo – tanto che si diceva non avesse la testa – neanche per andare a cagare, e che non poté fregiarsi del numero I perché, a causa del solito referendum merdis, l’attuale Emanuele Filiberto, detto Testa di Cazzo, non è re[5]. Il Testa di Ferro, o anche “Caval d’brüns”, ma solo in Piazza San Carlo a Torino, non solo fu il primo a dotarsi di artiglieria e di una vera fanteria (fino ad allora i Savoia avevano sempre combattuto a cavallo trascinandosi dietro soldati appiedati e recalcitranti), ad armare una marina da guerra, inviando tra l’altro tre canoe corazzate a Lepanto contro i turchi, ma ebbe il fegato di allearsi con l’imperatore Carlo V, quello sul cui culo non tramontava mai il sole, e lo stomaco di combattere i francesi nell’apocalittica battaglia di St. Quentin, sterminandone a testate almeno sei milioni – anche se i revisionisti parlano di non più di quattro milioni e i negazionisti negano addirittura che i francesi siano mai esistiti. Dopo questa immane catastrofe nucleare, dovuta alle testate, la ridente località di St. Quentin venne chiamata St. Quentin Tarantino – il quale avrebbe tratto il suo personale stile splatter proprio da questa esecrabile battaglia. Ma cosa più importante della morte di qualche inutile francese fu la Pace di Cateau-Cambrésis, scritto in piemontese, che nel 1559 più o meno reintegrò i Savoia a casa loro, Emanuele Filiberto nel suo bagno e tutti gli altri savoiardi pucciati nel caffelatte. Non solo, Testa di Ferro riordinò politicamente, amministrativamente e anche un po’ economicamente lo Stato e spostò definitivamente la capitale dai pascoli di vacche di Chambery a Torino, dov’è tuttora.
Emanuele Filiberto L’Unico è considerato giustamente uno dei Padri della Patria, anzi uno dei Cugini della Patria (Consobrinus Patriae) perché la Savoia esisteva già, e una leggenda postuma del Cabaretto, che era morto da cento anni ma c’entrava sempre, narra che il suo corpo sia imprigionato dentro la statua equestre di Piazza San Carlo in attesa di resuscitare in tempi propizi per riprendersi una seconda volta tutti i suoi territori, comprese la Jakuzia e la Kamchatka, instaurare il suo nuovo regno e cacciare a scarpate nel culo tutti gli usurpatori merdosi.
Carlo Emanuele I
Emanuele Filiberto divenne comunque il primo Gran Maestro del nuovo ordine cavalleresco delle SS Maurizio e Lazzaro (quest’ultimo scelto non a caso), unione e sintesi degli ordini di S. Maurizio e di S. Lazzaro, sciolti nella tragica Notte dei lunghi randelli (30 VI 1572) perché ormai infestati di gay, e, al culmine del suo splendore e della sua gloria, giunse a farsi chiamare Signore e Dio, ma qualcuno gli fece notare che un appellativo così era già stato utilizzato in passato, per cui si fece chiamare solo Dio.
Suo figlio, Carlo Emanuele I detto Cristu (lo Spirito Santo era il Cabaretto, perché i Savoia erano pur sempre cattolici, anche se anticlericali, nel senso che non potevano sopportare che uno stronzo di papa gli venisse a dire cosa fare in Savoia) era un’anima inquieta che avrebbe fatto la fortuna di qualsiasi psicanalista; ma essendoci nel tardo Cinquecento solo maghi e indovini, già da bambino dovette rivolgersi a Nostradamus, il quale soggiornò per breve tempo in Savoia, dove trovò l’ispirazione per le quartine delle sue Centurie grazie a dei quartini spacciatigli da Carlo Emanuele, al quale per ringraziare predisse un futuro di merda. Difatti Carlele, per brevità, non seppe mai prendere una decisione definitiva, si alleò prima con i francesi, poi decise invece di mandarli affanculo, e già che c’era, sentendosi protetto in alto da non si sa bene chi, forse da Nostradamus, fece incazzare l’imperatore, gli spagnoli, il papa e anche un panettiere di Rivoli, incominciando a dichiarare guerra a destra e a manca, pure al panettiere, perché, si dice, quando l’alleanza con i cugini illegittimi d’oltralpe era già saltata, un giorno, avendo finito le biove gli aveva consegnato una baguette. Ma Carlele aveva sottovalutato la permalosità dei nemici che di volta in volta minacciava, a seconda di come si alzasse da letto la mattina, oppure sopravvalutato la potenza del suo esercito di contadini – Testa di Ferro aveva infatti istituito per la prima volta nella storia universale la coscrizione obbligatoria arruolando le famigerate balosdivisionen armate di roncole, falci e rastrelli, che una volta spedì in Ungheria a picchiare i turchi insieme agli imperiali. Tale esercito, pur lottando eroicamente fino all’ultimo sangue, naturalmente non poteva nulla contro i mercenari svizzeri: provateci voi a minacciare un lanzichenecco ubriaco con un forcone sporco di letame, o una guardia svizzera armata di alabarda e cartucciera di santini di Padre Pio. Allora incominciano i dissapori tra Savoia e Chiesa, mentre quelli con l’impero erano atavici e quelli con i francesi congeniti, cosa, insieme all’esercito di zappaterra, che fece parlare per la prima volta di una Savoia marxista-leninista.
Esito delle continue guerre, dei continui scambi di insulti, delle madonne e dei santi tirati giù, degli scherzi (tipo nascondere i diplomatici francesi nei gabinetti e buttare via le chiavi) fu la Seconda Spartizione della Savoia, con la differenza che questa volta i territori restarono in mani sabaude, ma con un deretano spagnolo sulla faccia e un cazzo francese nel culo per almeno sessant’anni. E ce ne volle per liberarsene, solo per brevi momenti e per brevi tratti, e quando non c’era uno spagnolo infrattato in qualche fortezza o uno stronzo di francese alle spalle c’era una troia di duchessa francese a tenere per le palle i successivi Carli Emanueli e Vittori Amedei. Gli unici aspetti positivi di questo secolo furono la barocchizzazione - o barottizzazione - degli edifici di Torino e la conquista di Asti, del Monferrato e di Saluzzo, strategica per le comunicazioni (altrimenti bisognava sempre fare dei giri della madonna per andare da Torino a Vercelli e da Torino a Cuneo) e per l’approvvigionamento di barbera, tartufi e castagne.
Vittorio Amedeo II
A un certo punto nasce invece Vittorio Amedeo II, che già spermatozoo brandiva un archibugio caricato a rane, da embrione aveva giurato vendetta, tremenda vendetta ai francesi, facendoselo tatuare sul glande, e da feto firmato sulla Gazzetta Ufficiale di Moriana la dichiarazione di guerra a Luigi XIV, il Re Sole 24 Ore. Il suo primo atto ufficiale da vivo fu NON accettare l’alleanza con il vecchio pederasta Luigi, perché gli aveva già dichiarato guerra. I francesi s’incazzarono di brutto, così, quando scoppiò la Guerra di successione spagnola, i finocchi scesero le montagne e si misero ad assediare Torino. Allora Vittorio Amedeo, che di equino non aveva solo la faccia, si incipriò il viso, si mise la parrucca e il neo finto da guerra, mandò a chiamare il cugino di trentesimo grado della scala Richter Eugenio di Savoia, che pur essendo cresciuto in Francia per reazione era diventato un generale austriaco, e insieme a questo, dividendo l’esercito austro-piemontese in due tronconi simili a due scarponi chiodati, incominciò a prendere appunto a scarpate nel culo i francesi, rompendoglielo per la seconda volta in centocinquanta anni, o tot umberti, al grido di “Boia faus!”, che da allora divenne la carica dei Savoia. Va detto, per inciso, che prima dell’attacco tremebondo in cui saltarono denti, protesi, nervi e ancora una volta tarzanelli francesi, un’invasione francese di Torino, dove la popolazione e la guarnigione assediate si erano ridotte a mangiare biscotti (per via della celebre frase della duchessa che alla richiesta di pane per il popolo affamato aveva risposto “Se non hanno più pane che mangino i savoiardi”, anche se qualcuno capì male e si mangiò il vicino di casa, per cui iniziò a girare voce che gli assediati avessero cominciato a divorarsi tra loro), venne sventata nei cunicoli della Cittadella da un minatore (che non era uno che lavorava in miniera ma uno che tirava delle mine tremende) di Biella chiamato Pietro Micca, o Pietro Miccia, che al grido di “Ci avete rotto il cazzo!” fece saltare per aria il tunnel dove alcuni nani francesi erano ingiustamente penetrati, spiaccicando le loro cervella e le loro budella piene di camembert un po’ ovunque (ragione per cui a Torino non si è mai costruita la metropolitana) ma perdendo purtroppo la vita a causa della miccia troppo corta – e qui, in effetti, non si è mai accertato di quale miccia si trattasse. Pietro Micca resterà per sempre un eroe, ad ogni modo, e a lui sarà dedicata l’unica via obliqua di Torino, perché era comunque un tipo strano.
Questa infernale battaglia del 1706 d.C. venne eternata negli annali della storia mondiale, e del Cabaretto, come la Battaglia di Torino, e in sua memoria Vittorio Amedeo fece costruire dal Juvarra, un architetto immigrato dalla Sicilia inizialmente per lavorare alla Fiat, la gigantesca Basilica di Superga, dove da allora in poi vennero seppelliti tutti i re di Savoia e dove qualche umberto dopo si schiantò il Grande Torino – è difatti risaputo che Vittorio Amedeo II, ghiotto di pasta con le sarde e soprattutto di cioccolata, era juventino. Già che c’era, conquistò anche Alessandria, levandosi finalmente dai coglioni gli ultimi spagnoli rimasti.
Il regno
I francesi non si fecero più vedere per qualche tempo, gli spagnoli, essendosi estinti, non esistevano più, nemmeno in Spagna, e ai Savoia toccò l’isola di Sicilia, pare per insistenza del Juvarra, che ruppe talmente le palle che alla fine Vimedeo, sempre per brevità, accettò, anche se l’idea iniziale era stata l’Inghilterra. Ma la cosa più importante non era la Sicilia, una landa desertica abitata da gnu e mafiosi, bensì la sua corona che, tramite il Daecreta Regalia Sabaudiae (DRS) conferì a Vimedeo e ai Savoia il titolo di RE. Dopo sette anni, rottosi il cazzo di pensare di essere re di Sicilia, anche se non l’aveva mai vista, Vimedeo II la permutò a condizioni più che favorevoli con la Sardegna, landa spettrale popolata da mufloni e anonimi sequestratori ma molto più bella per passarci le vacanze, e da allora lui e i suoi discendenti si chiamarono re di Sardegna e la Savoia Regno di Sardegna, che per ragioni razziste continuerò qui a chiamare Savoia.
Carlo Emanuele III
Ma dietro a tutti questi successi e a questa magnificenza vi era un lato oscuro nel nuovo re di Savoia, un mostro che lo stava lentamente divorando, una verità abominevole, vale a dire la dipendenza dal cioccolato, in confronto della quale le sue manie di grandezza sfocianti nella paranoia erano un leggero disturbo di personalità di tipo borderline. Fu così che Vittorio Amedeo II decise infine di abdicare e di ritirarsi nel suo castello di Chambery, cedendo il regno al figlio Carlo Emanuele III, detto Carlin Petrini, a patto che gli si lasciasse mangiare cioccolata in pace. Dopo qualche mese di furiose trattative, Carlele III cedette e accettò il trono, e Vimedeo poté strafogarsi di nutella senza più nessuno che fosse sempre lì a rompergli le palle.
Ma le palle incominciò a romperle lui, perché, nonostante avesse abdicato consensualmente, continuava a dire a Carlin fai questo e fai quello, al che Carlin gli disse testualmente “O la finisci di rompere i coglioni o ti mando in Francia”, che a quel tempo significava più o meno ti mando a dare via il culo. Ma Vimedeo non lo volle capire, e continuò con il suo governo ombra, tanto che alla fine, temendo una sua cospirazione ai danni di Carlin, fu messo da questo agli arresti domiciliari nel castello di Moncalieri, castello intorno al quale fece costruire una palizzata di legno per impedirgli anche di andare a pisciare in giardino. Un giorno i dragoni della Sicurezza Sabauda (SS) irruppero a sorpresa nel castello alla ricerca di prove del complotto, ma l’unica cosa compromettente che trovarono, nascosta in un baule, furono tre filiberti [6] di cioccolata.
Alla fine Carlin si rassegnò alla buonafede del padre e, prima che qualcuno lo vedesse e andasse a staccarne i cimeli, fece abbattere il muro – la cosiddetta Caduta del muro di Moncalieri – mentre Vimedeo capì finalmente che era ora di levarsi dalle balle e passò il resto della sua gloriosa vita a succhiare gianduiotti.
Carlele III poté così essere libero di passare un tranquillo weekend di montagna al Colle dell’Assietta, e rispaccare il culo a una ridicola coalizione di francesi e cadaveri spagnoli, sempre in compagnia dei compagni di merende austriaci.
Questo evento è simpaticamente rievocato di anno in anno da tizi vestiti come Gianduja e Pierrot che si sparano con gli elastici. Per non essere da meno dei suoi innumerevoli predecessori, Carlele approfittò della vittoria per aggiungere un’altra provincia al nascente impero sabaudo, vale a dire Novara (più Verbania, che allora non era ancora provincia, completando così il puzzle del Piemonte, limite oltre il quale in molti non si sarebbero più spinti, ma non i Savoia) da cui riportò romeni e altre zanzare, tanto che qualcuno in patria cominciò a lamentarsi, accusandolo di andare alla conquista di scatole di rubinetti e di inutili risaie. Ma poi si scoprì che sotto le risaie c’era il petrolio, che nel Settecento non serviva ancora a un cazzo e quindi fu sotterrato di nuovo.
A Carlin fece seguito un Vittorio Amedeo III che visse tra le puttane. Tratto distintivo dei Savoia nel corso dei secoli fu l’avere almeno quattro donne ufficiali: la moglie con cui fare nuovi Savoia, l’amante con cui fare alleanze, l’amante con cui fare sesso contronatura e l’amante con cui giocare a briscola durante la vecchiaia. Vimedeo III, prima di morire, fece in tempo a intravedere la catastrofe, a venire cioè sconfitto insieme agli austriaci dai rivoluzionari francesi e a cedere Savoia di montagna e Nizza per un piatto di lumache. Carlo Emanuele IV, detto Lo Sfigato, la catastrofe dovette invece sorbirsela per intero. Questo flagello aveva le sembianze del peggior incubo sabaudo: il grande nano francese, che sembrava tornare dall’aldilà e reclamare vendetta per tutti i giusti soprusi cui era stato sottoposto nel corso dei millenni: Napoleone. E cosa poteva fare la piccola Savoia, che tra l’altro il Nano riteneva Francia, contro questa masnada di finocchi se non tirargli gianduiotti? Carlele IV, dopo che tentarono di ucciderlo a bottigliate di Calvados, pensò bene che era ora di levarsi dal cazzo e aspettare tempi migliori, e, visto che gli dissero che la Sardegna era sua (non lo sapeva) andò in ferie con tutta la famiglia in Costa Smeralda. Si ebbe così la Terza Spartizione della Savoia, e la cosa cominciava a farsi un po’ pesante anche per gente pesante come i Savoia.
Vittorio Emanuele I
Intanto a Torino, in Savoia e nel resto del mondo Napoleone spadroneggiava e si atteggiava a bullo di quartiere cercando di nascondere dietro le sue sanguinose conquiste gli ideali libertari della Rivoluzione, che erano ciò a cui teneva realmente, e dietro lo slogan pubblicitario “Liberté, egalité, cuginité” si impadronì di tutto l’impadronibile e il tassabile, tranne la Sardegna. Difatti, per ripicca, Vittorio Emanuele I di Savoia, fratello di Carlele IV e subentratogli nel frattempo sotto il culo regale per palese mancanza di palle, si bullava di essere l’unico re indipendente rimasto in Europa, o almeno in Italia, o almeno in Sardegna. Più volte i francesi tentarono di attaccare l’isola coi nani da sbarco, ma sempre vennero respinti e affogati da colpi di mortaio caricati personalmente dal re e da pecorai sardi in tenuta di guerra, il terribile battaglione SA, drogato con l’ichnusa e armato di cannonau 45°, tanto che alla fine il Nano dovette desistere.
A Torino invece il Partito Repubblicano Ë Giacobino Napoleonico Anonimo (P.R.Ë.G.N.A.) ne approfittava per darsi ai bagordi più sfrenati e per godersi tutti gli aspetti migliori dell’occupazione francese, tipo il gioco delle bocce e il lancio del camembert. Se non che, improvvisamente, il Nano venne preso a sberle da un tizio che si faceva chiamare Zar, che in russo significa Cesare, nome che ai francesi ricordava brutti momenti. Poi venne preso a schiaffi un po’ da tutti, anche da due stronzi che passavano di lì per caso, fu cacciato all’isola d’Elba (e per qualche mese pure Vinuele, per brevità, lo prese per il culo, regnando su un’isola molto più grande della sua) e infine preso a scarpate nel culo fino a Sant'Elena da una coalizione di britanni e germani. A Torino i seguaci del P.R.Ë.G.N.A. cominciarono verosimilmente a tremare, anche perché le prime parole di Vinuele dopo il brutto scherzo fatto al Nano erano state "Mo' so' cazzi vostri", che, trovandosi a Roma in visita al fratello impagliato, pronunciò in perfetto romanesco.
La Restaurazione
Al termine del Meeting di Vienna, circa nel 1814, ormai oltre il novantaduesimo umberto dell’era sabauda, Vittorio Emanuele I detto Il Pio rientrò trionfalmente in Torino capitale e fece cristianamente strappare le unghie dei piedi, spegnere le sigarette sulle braccia, strappare i peli del pube, ingerire dieci ghiaccioli interi, inculare dai dobermann, spezzare la schiena, tagliare le gambe, allungare le mani, squartare, evirare, castrare, vasectomizzare, lobotomizzare, uccidere e decollare (nel senso di decapitare, e avrei potuto scrivere subito decapitare) anzi decollare e poi uccidere gli usurpatori del P.R.Ë.G.N.A., infilando quindi le loro teste in lunghi pali e facendole girare sanguinolente e con copiose fuoriuscite di poltiglia cerebrale per le vie della città, nella migliore tradizione restauratrice, sotto il cinico slogan “Liberté, egalité, decolleté”, mentre quello che rimaneva dei cadaveri veniva bruciato, le ceneri utilizzate come concime nelle risaie e i crani donati a Lombroso – che non era ancora nato ma a cui il Cabaretto diceva sarebbero serviti.
I Savoia erano finalmente tornati.
L’esilio sardo era finalmente finito.
Lo stato era di nuovo una cara vecchia monarchia assoluta.
I francesi erano stati affogati nel Po (qualcuno avrebbe anche voluto abbattere il ponte fatto costruire dal Nano, per spregio, poi si pensò invece di costruirne uno a Parigi).
I borghesi liberali erano stati ridotti al silenzio, e così i loro avvocati. I contadini erano tornati a lavorare la terra e gli operai a operare, ché le fabbriche non c’erano ancora, ma per sicurezza ai dragoni della Sicurezza Sabauda vennero affiancati il nuovo corpo dei carabinieri armati di fionda e i dragoni combattenti (Wafer SS).
La Savoia si era ingrandita con l’acquisizione di Genova, del porto di Genova, delle puttane di Genova, dei Testimoni di Genova, del Genoa e della Liguria intera, prima provincia straniera e seconda repubblica conquistata, dopo la Svizzera (che giusto in quegli anni tornava a vivere). Insomma, era tutto a posto, anzi tüc a post. Rimaneva solo un piccolo problema, oltre a quello di ripulire le strade e i muri di Torino dopo le doverose esecuzioni, e cioè il problema della successione, perché quel piciu, detto amorevolmente, di Vinuele aveva avuto solo figlie femmine e adesso come adesso non se la sentiva più di trombare sua moglie. Così, quando nel 1821 circa il re abdicò pur di non dover usare la mano pesante con i rivoluzionari appunto del ’21, si mise in atto per la seconda volta la famigerata opzione a) del regolamento Salico (Seconda Aberrazione Sabauda) venne cioè posto sul trono come reggente un alto, oltre che altro, cugino di famiglia dal nome impronunciabile di Carlos Alberto, poi sabaudizzato in Carlo Alberto.
Ma costui aveva qualche umberto di troppo poco, era cresciuto nella Francia napoleonica, era alto almeno duecento amedei e pesava un filiberto e mezzo, e a tutti non sembrò il caso, anche perché si diceva che fosse di idee giacobine oltranziste (voleva addirittura portare da quattro a due i paggi sulla carrozza reale). In neanche un mese di reggenza aveva già firmato una carta costituzionale e rischiato di mandare a puttane il lavoro di otto secoli, così che Vinuele fu costretto a fermarlo e a togliergli l’incarico, affidando il regno a suo zio di undicesimo grado, e fratello di Vinuele, Carlo Felice, chiamato da tutti L’Incazzoso: l’unico caso nella millenaria storia sabauda in cui il punto a) della Legge Salica fu fatto valere anche all’inverso, peggiorando la situazione, tornando il trono da un cugino sfigato di un ramo collaterale sfigato a un fratello sfigato (che fino a quel momento aveva cacciato mufloni in Sardegna, di cui era governatore, viceré e oberführer, molestato bambine, perché era etero, e giocato a tressette) di un ramo principale ormai sfigatissimo. L’occupazione principale di Carlo Felice nei suoi circa dieci anni di regno, X umberti, fu non concedere amnistie, prendere per il culo i poveri, insultare i rivoluzionari, i francesi e i rivoluzionari francesi, sfottere, umiliare e commettere stalking nei confronti di Carlo Alberto – comunque designato a succedergli perché l’unico esemplare maschile rimasto, a parte la moglie di Carlo Felice – sgranocchiare grissini tenendoli per la punta e consumandoli come un temperamatite. Quando morì, venne seppellito nel secolare cimitero di famiglia di Altacomba, o Altatomba, nelle montagne savoiarde, perché l’Italia gli faceva schifo, soprattutto la Sardegna.
Carlo Alberto
Il primo atto ufficiale di Carlo Alberto il Sordo alle Critiche fu dimostrare a tutti che non era quel liberale rivoluzionario che si era sempre temuto, giustiziando appunto al Rondò della Forca i sovversivi repubblicani mazziniani del ’33. Ma si fece poi promotore di alcune intelligenti riforme come quella dei codici civile e penale – fino ad allora l’ordinamento giuridico sabaudo si era basato sul diritto romano di Caligola – legalizzando l’aborto in caso di nascita di mezzisangue e sostituendo il carcere duro con pene rieducative come la disinfestazione a mano delle zanzare del vercellese e la mansione di sagoma per l’addestramento dei carabinieri. Costruì inoltre decine e decine di milioni di amedei di strade ferrate, fece scavare a mani nude, sempre dai detenuti, milioni di amedei di canali per l’irrigazione delle risaie, sviluppò l’industria della seta e delle armi (promettendo appunto cannoni e camice di seta) ridusse come promesso il debito pubblico non liquidando i titoli di stato a scadenza e il fasto della corte scopandosi una sola amante, e solo quand’era a Parigi, e impiegò il doppio del tempo a prendere una decisione, per cui lavorava dalle quattro del mattino alle undici di sera. Ma alla fine le sue porche decisioni le prese, e alcune erano proprio porche. I primi diciassette anni di regno li trascorse così, e regnò circa diciotto anni.
Difatti Carlo Alberto a un certo punto si ruppe, di passare il tempo in ufficio o al massimo dal barbiere a far sfoltire i baffi, per cui decise che era ora di entrare nella storia, di ampliare cioè il territorio. Voleva dichiarare guerra a qualcuno, non era importante a chi. Subito difatti si pensò alla Francia, ma l’idea si scartò perché troppo scontata, poi qualcuno gli consigliò la solita invasione della Svizzera, tanto per ricordare agli elvetici cioccolatai i cari vecchi tempi andati, ma consegnata la richiesta alla c.a. di C.A., quest’ultimo rispose che sarebbe stato troppo facile e che lui voleva un pezzo grosso. Si pensò allora alla Russia, ma per fare guerra allo Zar bisognava far passare l’esercito attraverso l’impero austriaco e sicuramente agli austriaci l’idea non sarebbe piaciuta. Sembrava di essere a un punto morto, anche perché la Prussia non era ancora ritenuta una grande potenza mentre l’Inghilterra era troppo piovosa e le camice di seta delle Wafer SS si sarebbero subito inzuppate. Qualcuno, nell’interminabile riunione segreta notturna che si stava tenendo su questo tema nello sgabuzzino di palazzo reale, suggerì allora di dichiarare guerra agli Stati Uniti, prima che fosse troppo tardi.
“Potremmo abbattere il campanile di New York con le mongolfiere” disse un oscuro consigliere di cui non è stato tramandato il nome.
“Se invadiamo l’America” aggiunse il ministro dell’agricoltura, “potremmo coltivare il riso lì e disfarci una volta per tutte delle zanzare.”
“Una volta conquistata l’America” intervenne il ministro dell’immigrazione, “deportiamo tutti gli immigrati irregolari e li facciamo lavorare per noi in appositi campi.”
“A questo punto” disse il ministro per la propaganda, “potremmo deportare nei nostri campi americani tutti i francesi d’Europa e pensare a una soluzione finale.”
“Cosa intendi per ‘soluzione finale’?” pare gli chiedesse il re.
“Non lo so” rispose il ministro, “me l’ha suggerito il Cabaretto.”
La proposta non passò per un solo voto, pare per il motivo che, essendo ormai mattina, il ministro della guerra, visibilmente addormentato, aveva firmato sulla casella sbagliata, ed era necessaria l’unanimità. Così Carlo Alberto, esausto, decise infine di andare in aiuto dei cugini lombardi che per cinque giorni si erano ribellati agli austriaci e che ora temevano li volessero menare di santa ragione, e dichiarò guerra all’Austria. Grande fu l’indignazione dei vecchi ministri nati e cresciuti filoaustriaci e antifrancesi, ma Carlberto non ne volle sapere, ormai aveva deciso. “Il re sono io” gli rispose, “e faccio come cazzo mi pare.”
La Prima guerra d'indipendenza
Ma prima di partire per il fronte, che nei piani strategici fu spostato in tutta fretta dal Mississippi al Ticino, per assicurarsi le spalle – e il culo, visto che era il 1848 e c’erano moti rivoluzionari dappertutto, anche se in Savoia si limitavano a chiedere la riduzione dell’orario di lavoro da venti a diciotto ore al giorno – Carlberto, con una mano sulla bocca e un sacchetto pronto nell’altra, si decise infine a concedere lo Statuto Albertino, vale a dire la prima cosa somigliante a una costituzione scritta che mai si fosse vista in Savoia. Difatti molti, anche provandoci, non riuscirono a capire cosa fosse. Si istituiva così una monarchia costituzionale con un parlamento bicamerale, una camera nel salotto e l’altra nel gabinetto del re, e si concedeva il diritto di voto ai cittadini maschi con un censo di almeno otto miliardi di carlalbertini che, nessuno sapendo a quanto corrispondesse un carlalbertino, figurarsi otto miliardi, risultarono essere circa quattro in tutto il regno. Si creò la figura del primo ministro, del viceprimoministro, dei sottosegretari e degli uscieri, in questo cominciando paurosamente ad assomigliare alla Svizzera, ma “il re resta il re”, come Carlberto fece apporre in calce dopo l’ultimo articolo, “e il re sono io! Credo.”
Messi a punto tutti i preparativi, Carlo Alberto partì col suo esercito per andare a spaccare il culo ai crucchi. Disse di farlo perché Dio, non fu mai appurato quale, lo aveva incaricato della missione di liberare l’Italia dallo straniero, chiunque fosse, e in quel momento fosse l’Austria, perché tutti gli indipendentisti italiani vedevano in lui l’unico, il solo che avesse le palle per provarci e che disponesse di un esercito abbastanza cazzuto per riuscirci, a differenza delle imbarazzanti milizie borboniche e della Chiesa. Difatti mandato in Spagna da Carlo Felice per levarselo dai coglioni, prima di diventare re, aveva combattuto i rivoluzionari spagnoli a fianco dei francesi, superando di corsa trincee, guadando un canale marino a nuoto con il moschetto a tracolla, due bombe a mano accese nelle mani, la sciabola fra i denti e un nano francese sulle spalle, aveva poi preso a calci gli artiglieri a difesa della fortezza del Trocadero e quindi sparato, trucidato a colpi di baionetta e massacrato col calcio del fucile più rivoluzionari possibili gridando “Non sono più un liberale!”, in modo che Carlo Felice se ne facesse una ragione. Così la Savoia decise di sfidare da sola l’impero austriaco, un po’ come se la Svizzera avesse poi deciso di dichiarare guerra al Terzo Reich: comunque fosse andata, c’era da farsi spaccare (e cremare) le ossa. E Carlo Alberto lo sapeva bene, perché stanco di vivere ormai dall’età di undici anni era proprio quello che cercava (si dice che fu il primo emo della storia). Aveva così inizio il glorioso Risarcimento, detto anche Risorgimento.
Entrato a Milano da liberatore, i milanesi dimostrarono infatti tutta la loro riconoscenza tirandogli delle pietre e dei torroni. Un certo Cattaneo, detto Cazzaneo per le cazzate riguardanti una stupida Unione Europea di cui vaneggiava, aizzava difatti i propri concittadini dalla sua villa in Svizzera dicendo che i piemontesi avrebbero dovuto cacciargli di casa i figli di puttana austriaci e poi levarsi subito dalle palle, perché Milano doveva essere una Repubblica e lui esserne il primo Presidente. A Carlo Alberto costui non andava molto a genio, e continuò a scassare gli Austriaci come niente fosse. Giunto ormai in Veneto con tutta l’artiglieria pesante, in compagnia di effimere truppe toscane, pontificie e borboniche fece un altro fritto misto di crauti e strudel, tanto che qualche suo generale, già che c’erano, propose di andare avanti fino a Vienna. Ma poi, invece di affondare il colpo, si fermò a decidere – non si sa cosa – e altri crauti e strudel giunti in massa dal Brennero, visibilmente incazzati per aver dovuto interrompere i valzer, presero a legnare come assatanati ricacciando Carlo Alberto fino a Milano, dove i milanesi decisero infine di sparargli, preferendo a quel punto gli Austriaci.
Dopo l’armistizio, il re tornò mestamente in Piemonte ma, essendo rimasto vivo contro la sua volontà, promise di riprovarci. E lo fece l’anno dopo: denunciò l’armistizio, e già che c’era anche un paio di scippatori, lasciò il comando e lo affidò a un generale polacco, il quale non aveva mai visto una risaia prima e si ritrovò impantanato nel novarese. Fu una cosa orribile. Questa fu l’ultima battaglia di Carlberto, che più volte nella mischia chiese agli Austriaci di sparargli in fronte mentre questi sparavano a tutto quanto si muovesse tranne che a lui. Dopo la sconfitta decise così di abdicare. La I Guerra d’indipendenza, o LXV Guerra di espansione sabauda, finì così, il grande disegno di conquista di Carlberto era svanito, e dovette travestirsi da nano del circo e fuggire (ma essendo alto duecento amedei fu subito riconosciuto, anche se i crucchi finsero di non farlo), senza nemmeno passare da Torino a ritirare la liquidazione. Il trono passò al figlio Vittorio Emanuele II, mentre lui finì i suoi giorni qualche mese dopo in esilio volontario a Oporto, ubriacandosi di Sandeman e maledicendo gli Austriaci per non averlo ucciso e trasformato quindi in un immortale come Emanuele Filiberto, e il Cabaretto.
Vittorio Emanuele II
Vinuele II o Vittoriemanuele Fecondo era un tipo strano, più strano di Pietro Miccia, anche fisicamente. Per spiegarsi come fosse possibile che un re alto circa due metri, magro, stiloso e con manie suicide avesse fatto cagare a una regina di stirpe austriaca un tizio basso, tarchiato, buzzurro e gaudente, qualche maligno insinuò che, dopo che la culla di Vinuele aveva preso fuoco con lui dentro quand’era ancora in fasce, il vero Vinuele fosse morto carbonizzato e che fosse stato sostituito col primo bambino della stessa età delle vicinanze, nel caso il figlio del macellaio, secondo il punto j) della Legge Salica. I sospetti presero piede soprattutto dopo che la tata che aveva causato l’incidente, purtroppo per lei unica persona presente al rogo, ovvero una filippina semiclandestina che, ustionatasi a sua volta, era ormai in via di guarigione, morì improvvisamente non si sa bene di cosa, forse per paura che le ritirassero il permesso di soggiorno. I Savoia smentirono e negarono sempre, ma non spiegarono mai perché Vittorio Emanuele, ogniqualvolta si trovasse davanti a un’alternativa, dicesse sempre “Che faccio, lascio?”
Vinuele dovette smilitarizzare il confine con la Lombardia ma, avendo combattuto lui stesso e visto quanto fossero antipatici gli austriaci, soprattutto quel vecchio pappone di Radetzky, si promise che prima o poi ci avrebbe provato lui stesso. Nel frattempo si fece crescere i baffi fino a un diametro di un metro (cento amedei) andò in montagna a cacciare stambecchi e soprattutto in campagna a fottere contadine, facendo incazzare i fattori e facendo sorgere altri dubbi sulle sue vere origini. Vinuele era un vero compagnone, soprattutto a tavola e al bar, tranne quando Camillo Cavour Benso, il suo spietato presidente del consiglio, che gli dava ai nervi in un modo quasi insostenibile, gli ripeteva di dare in moglie la sua bambina al cugino pedofilo di Napoleone III, Napoleone Plon Plon, per ragioni di alleanza strategica, di tagliarsi i baffi, di stare più zitto possibile davanti alla regina d’Inghilterra e che era un testone e un balos, tutto questo dandogli del tu. Se Vinuele fosse stato il Conte Verde l’avrebbe annegato nella vasca da bagno solo per questo, ma Cavour nella vasca da bagno non ci entrava.
L’età di Cavour
Il conte-possidente-liberaledidestra-antiaustriaco-filofrancese-dallabarbaacollare Cavour I divenne presidente del consiglio nel 1852 grazie al concubinato con la sinistra di Urban Rat (tradotto dal piemontese: Topo di Città) e furono subito cazzi, soprattutto per gli austriaci. La spregiudicatezza politica di Cavour superava quella di un Bismarck – il quale ammise sempre di non essere stato alla sua altezza – essendo inferiore solo a quella di Hitler. Parlando solo francese in pubblico e solo piemontese in privato e con il re (come tutta l’élite sabauda da più o meno ottocentocinquant’anni), del resto d’Italia gli importava più o meno quanto imparare l’italiano. L’Italia per Cavour era una zona d’espansione est (ZEE), già quando scendeva in Emilia Romagna si teneva un fazzoletto al naso, in Toscana aveva frequenti attacchi di vomito e il solo pensiero di andare un giorno a Roma gli faceva venire strane manie suicide, come togliersi la vita ingurgitando un cinghiale intero, vivo – cosa che Vinuele, a cena, tentò più volte di fargli mangiare.
Ministro dell’agricoltura e del commercio, fece costruire altre ferrovie e scavare un gigantesco canale che porta il suo nome a vecchi prigionieri napoleonici del 1814 che nessuno rivendicava, ed era spassosissimo vedere questi settantenni col berretto frigio che portavano le traversine a spalle e scavavano tra le risaie tormentati di continuo dalle zanzare; ministro dell’economia e delle finanze trasformò la Savoia in uno stato liberoscambistacapitalista di stampo inglese (il suo modello venne poi adottato dagli americani) e trovò un’ottima fonte di finanziamento nella confisca di tutte le proprietà ecclesiastiche in nome della laica e modernissima massima “Libero stato, e libera chiesa se resta qualcosa”; primo ministro plenipotenziario, istituì quindi il matrimonio civile, per offendere ancora un po’ la chiesa, condannò a morte in contumacia l'ormai troppo repubblicano Mazzini, che fu costretto a rifugiarsi nel bagno di un pub londinese, e, nel 1855, costrinse il re a partecipare a una guerra che si teneva in Crimea, minacciandolo di dire a tutti che si trombava contadine puzzolenti di toma. Il re accettò, e un corpo di spedizione di bersaglieri e Wafer SS – che si diceva non scendessero mai da cavallo, combattessero tenendo con una mano le briglie, sparando con l’altra e brandendo la sciabola con il terzo braccio finto, e che, ma ciò è da verificare, cuocessero il risotto sotto la sella – andò a picchiare i russi insieme a nani francesi, inglesi tubercolotici e turchi turchi. Ormai si combatteva a fianco dei cari vecchi stronzi nemici, il vento era cambiato a Torino. La nuova parola d’ordine era: “Cacciamo l’Austria dal nostro giard... dall’Italia!”
Dopo la scontata vittoria, visto che c’erano le Wafer SS, la Savoia portò tutti i suoi problemi sul tavolo delle trattative, iniziò cioè a rompere le palle a livello europeo. Ma la cosa più importante furono i successivi accordi segreti di Plombières, segreti perché, se fossero stati resi noti, a Cavour qualcuno il cinghiale l’avrebbe fatto entrare dal buco del culo.
Cavour e Napoleone III, presidente a vita, dittatore, imperatore e maitresse dei francesi, si accordarono per:
- a) prendere a sberle gli austriaci;
- b) assegnare alla Savoia la simpatica e riconoscente Lombardia più tutto quanto si fosse eventualmente conquistato dal Veneto al Mar Nero;
- c) consegnare alla Francia l’avita Savoia di montagna e Biella Marittima (Nizza), cioè tutto quanto di sabaudo stesse al di là delle Alpi, compresa l’antica capitale Chambery, il cimitero di Altatomba col corpo putrefatto di Carlo Felice e il vecchio gabinetto del Conte Verde, divenuto nel frattempo monumento nazionale;
- d) trasformare il resto d’Italia, anzi l’Italia, in un protettorato francese;
- e) fare in modo che nessuno lo venisse a sapere prima che la guerra fosse finita;
- f) non concludere paci separate;
- g) consegnare una puttana a Napoleone.
Tranne i punti c) ed e), che gli vennero comunicati qualche anno dopo, tutto venne riferito a Vittorio Emanuele a decisioni già prese, così il re pensò di essersi guadagnato l’alleanza militare di Napoleone dandogli in cambio una puttana. La guerra sarebbe iniziata al più presto, non appena il riarmo piemontese fosse stato portato a termine con la nuova artiglieria pesantissima da 90 amedei, Cavour avesse digerito l’ennesimo cinghiale e Napoleone fosse guarito dallo scolo.
Nel frattempo bisognava fare di tutto per fare incazzare gli austriaci. A questo proposito, una grande idea di Cavour fu quella di sobillare le altre nazioni sottomesse all’impero austriaco invitandole ad attaccare da tutte le parti. Con i Croati non si andò molto avanti perché dicevano di stare già divertendosi un mondo a massacrare i Bosniaci; i Cechi e gli Slovacchi volevano che gli si mandassero delle donne, prima – ma Cavour non era stupido e voleva che prima le pagassero, al che della cosa non se ne fece più nulla – i Romeni invece, visto che si era in stagione venatoria, utilizzarono i fucili speditigli per la caccia al rom, e così non rimanevano che gli Ungheresi. La cosa si poteva fare, e si mandò una nave carica di armi su per il Danubio fino a Budapest con l’indicazione di disturbare e impegnare parte delle truppe austriache da quella parte. Ma sfortunatamente parte delle truppe austriache, durante un’ispezione di routine al porto, trovò le casse, e non sarebbe successo niente, nessun incidente diplomatico, se sulle casse di fucili nuovi non ci fosse stato scritto Made in Savoia. Gli austriaci, che se volevano martellavano duro ma erano anche un po’ tardi, si accorsero solo allora che forse Cavour ce l’aveva con loro, mentre Cavour si incazzò di brutto con il corriere per averlo fatto passare per un imbecille.
La propaganda antiaustriaca di Cavour comunque continuò, facendosi sempre più palpabile, perché aveva bisogno – così dicevano gli accordi segreti, altrimenti lo stronzo di Napoleone non sarebbe intervenuto – che fosse l’Austria a dichiarare guerra, e non era così facile distogliere quei mangia-strudel dai loro valzer per andare a spaccarsi il culo tra le zanzare. Allora si incominciò a dire in giro che gli austriaci mangiavano i bambini croati, senza nemmeno bollirli, che non usavano i bidet, che l’imperatore Francesco Giuseppe si faceva inchiappettare ogni notte da un rom e che l’imperatrice era un uomo. Soprattutto a quest’ultima insinuazione gli austriaci si incazzarono davvero e incominciarono ad avere dei pesanti sospetti. Per le strade di Torino, divenute ricettacolo di tutti gli indipendentisti italiani ansiosi di avere per le mani uno sporco austriaco mangiabambini, si sentivano commenti tipo:
“All’inferno tutti li crucchi, madonna buhaiola!”
“Sochme, crauto busone di un busone”
“Mo’ ie conciamo er buscio der culo come ’na capanna a ’sti gran fii d’una mignotta”
“Ci rumpimm’e corn a ’sti piezz e mmerd’i tedesch”
“Ci scippiamo a testa a ’sti cornutazzi arrusi e sucaminchie”
e anche la voce di qualche immigrato irregolare:
“Scrfut bfyngkf kv hntj trubsf gfjn l!”
Nell’attesa che anche l’ultimo obice da ottocento filiberti (circa settanta tonnellate) fosse pronto, Vinuele continuò a passare le giornate con le sue occupazioni preferite, sia nei fienili che a tavola. Si diceva che i suoi pasti durassero fino a sei ore, ma che, quando finalmente si alzava da tavola, Cavour stesse ancora mangiando l’ultimo cinghiale.
L’ultima provocazione di Cavour fu davvero irritante. Fingendo di stare organizzando una parata militare in onore di Carlo Felice, il primo ministro fece schierare e manovrare ottantamila soldati in assetto di guerra, trentamila cavalli corazzati, cinquemila cani da caccia e duemila cannoni nuovi di zecca lungo il confine del Ticino, tutti puntati contro gli austriaci. Questi, che ormai avevano capito di essere i bersagli dei Savoia, chiesero cortesemente di andare a manovrare un po’ più in là. Cavour rispose che quell’anno – era circa il 1859 d.c. – la parata sarebbe stata più coreografica del solito, che ci sarebbero stati parecchi ospiti stranieri e quindi le esercitazioni richiedevano grandi spazi e più tempo. Gli austriaci rifiutarono di accettare queste spiegazioni e intimarono di nuovo ai piemontesi di allontanarsi dal confine. Ma Cavour insistette nel dire che la tradizione andava rispettata ad ogni costo, pena la caduta della monarchia e il rischio di nuove rivoluzioni europee, e lasciò lì l’esercito. A questo punto gli strudel non ci videro più e inviarono un ultimatum. Era mattina, e diedero tempo fino a mezzogiorno per iniziare il ritiro, altrimenti era guerra, sanguinosa, tremenda, fottutissima guerra. Cavour, che aveva appena finito di fare colazione con due anatre arrosto e un panino col cinghiale, disse allora le gloriose parole:
E con il suo governo, un Vinuele chiaramente preoccupato per il fondoschiena e due diplomatici francesi nani andarono tutti a pranzo come niente fosse. Era guerra, la II Guerra d’indipendenza, o LXVI Guerra di espansione sabauda.
Seconda guerra d'indipendenza
Sapendo quanto erano stronzi gli austriaci, i sabaudi pensarono bene di allagare tutte le risaie tra Novara e Vercelli, così che gli strudel finirono infangati fino alle ascelle e massacrati dalle zanzare, incapaci anche di fumarsi una sigaretta, mentre i cannoni sprofondavano lentamente e i cavalli si rifiutavano giustamente di proseguire per paura delle nutrie. Nel frattempo, al segnale prestabilito, Napoleone e i suoi francesi da combattimento arrivarono da Genova con il treno, scesero, si unirono ai piemontesi di Vittorio Emanuele e Garibaldi – Cavour rimase a Torino a finire di mangiare – e tutti insieme incominciarono a menare come pazzi. Si disse poi che al momento dell’attacco Vinuele, visibilmente eccitato – visto che aveva insistito come un bambino per avere a tutti i costi il comando dell’esercito, ragione per cui Cavour, stremato da quella lagna, infine glielo concesse, ma solo a patto che fosse in prima linea – nell’alzarsi da sella per dare la carica scivolò con lo stivale fuori dalla staffa e udito da tutto l’esercito gridò “Diu d’na madona!” Al che tutti credettero che quello fosse il segnale di carica e gridando tutti, anche i francesi, “Diu d’na madona!” si misero ad attaccare, prendendo a schiaffi calci e pugni tutti gli strudel fino al Lago di Garda. “Diu d’na madona” diventerà la nuova carica dei Savoia e lo resterà almeno fino al 1943.
La guerra fu vinta in poco tempo, anche perché quando i sabaudi avrebbero voluto prendere gli austriaci a scarpate fino al Brennero e levarseli dal cazzo per sempre, tanto che Garibaldi si stava già esercitando con lo jodel, il sacco di merda di Napoleone, che aveva il comando dell’armata, per paura che nel frattempo in Italia scoppiassero delle rivoluzioni concesse unilateralmente agli austriaci checche l’armistizio, contravvenendo al punto f). E le checche, non volendola dare a Vinuele perché dicevano ch’era un macellaio e ne sarebbe andato del loro prestigio, gli offrirono in cambio la Lombardia. Cavour si incazzò come una iena e si dimise per due ore, e ancora più incazzato era Vinuele, che però non poteva dimettersi perché avrebbe dovuto abdicare. Allora, visto che Camillo minacciava di non mantenere gli impegni a sua volta, Napoleone, di nuovo preoccupato, soprattutto per il punto g), gli passò subito la Lombardia e lasciò alla Savoia mano libera in Italia, tranne che a Roma. Finì che, come da accordi, Nizza e la Savoia originale vennero consegnate alla Francia e la puttana a Napoleone. Allora Vinuele scoprì che lo avevano fottuto e mancò poco che incominciasse a macellare Cavour.
La nuova Savoia arrivava fino a Gardaland, alla faccia di Cazzaneo, una serie di plebisciti abilmente pilotati decisero l’annessione sabauda degli staterelli ex-austriaci-emiliani e della Toscana, tutti ansiosi di mangiare il bollito misto alla piemontese, ma si erano perse due antiche province. Qualsiasi individuo dotato di buon senso a questo punto si sarebbe fermato, a maggior ragione un sabaudo, ma non Garibaldi che, essendo nato a Nizza ed essendosi un po’ risentito per la cessione della sua città, a tutti gli effetti non era più un sabaudo. Questo grande generale ma mediocre e miope coglione politico, decise di andare a conquistare da solo il regno borbonico delle Due Sicilie che già una volta i Savoia avevano smollato, non valutando cosa ciò avrebbe comportato. Cavour non lo avrebbe mai fatto, questo divenne il tormentone dell’estate a Torino. Cavour avrebbe voluto far diventare Garibaldi l’eroe dei tre mondi (il vecchio continente, l’America e l’altro) o almeno farlo suicidare, ma non ci riuscì. Per lui il Risarcimento finiva in Toscana, e come già detto anche la Toscana gli faceva un po’ ribrezzo. A questo punto difatti il Cabaretto smette di essere il cronista ufficiale morto dei Savoia, rifiutandosi di narrare la storia di un paese estero, per cui le nostre fonti sono quelle conosciute da tutti e quindi molto meno attendibili.
Per fermare Garibaldi prima che facesse altre vaccate, Vinuele II, su ordine di Cavour, invase lo Stato della Chiesa prima che lo facessero i francesi – perché Napoleone aveva giurato di difendere il papa, si dice perché fosse interessato a un’assoluzione e a un attico ai Parioli. Batté prendendoli a sputi e schiaffi i soldati già morti del papa, il cui illegale territorio era ridotto ormai a Roma e al Lazio, e andò a bloccare Garibaldi in Terronia prima che la trasformasse in una repubblica (LXVII Guerra d’espansione sabauda). Cavour dovette infine farsene una ragione di diventare il primo presidente del consiglio italiano – già questa carica gli puzzava di clientelismi e favoritismi, di baci in bocca tra uomini, di stragi di stato, di corruzione di grandi editori, per cui la sua prima reazione fu vomitare sul giuramento ancor prima di firmare l’incarico.
Il regno d’Italia
Vittorio Emanuele II divenne il primo re d’Italia, se si esclude re Arduino, e mantenne giustamente la numerazione sabauda; tutta la penisola, tranne appunto la provincia di Roma, il Triveneto e San Marino erano sotto i Savoia, ma non era più Savoia – anche se, per comodità, continuerò a chiamare il Regno d’Italia Savoia. Difatti Cavour morì di lì a poco – si dice soffocato da un ossicino di cinghiale o avvelenato da Napoleone per avergli rifilato una puttana con la sifilide – senza essere mai andato più a sud di Firenze. Con lui moriva un grandissimo e ormai grassissimo statista, la cittadina di Cavour in suo onore fu ribattezzata Cavour Cavour, gli furono dedicate migliaia di vie, piazze e rotonde in tutto il regno, un premio letterario truccato e una portaerei giocattolo. Intanto Garibaldi tentava per l’ennesima volta di prendere Roma per i cazzi suoi, così che, per evitare di litigare con quel malmostoso di Napoleone, Vinuele si vide costretto a sparargli, cosa che nemmeno Cavour era arrivato a fare.
La capitale fu spostata appunto da Torino a Firenze qualche anno dopo, e con essa si spostarono Vinuele, la Bela Rusin sua amante, che non era poi tutto questo ben di dio ma faceva pompini eccezionali, tutta la corte e tutto il governo e il parlamento e i porta-borse. E quando i torinesi protestarono gli spararono direttamente con i cannoni. I tempi cambiavano, nubi scure cariche di merda si profilavano all’orizzonte. Data l’arretratezza del resto del paese in qualsiasi campo dello scibile umano, il re si vide costretto a piemontesizzare l’Italia, e questa parola dava un po’ fastidio ai siciliani e agli abruzzesi, ma soprattutto ai piemontesi, gelosi delle loro tradizioni.
L’accusa peggiore che veniva rivolta ai piemontesi era quella di voler far mangiare a tutti la bagna cauda, per questa ragione molti uomini e donne del sud si dettero alla macchia e diventarono briganti, costringendo l’esercito a compiere il primo genocidio della storia italiana e a imprigionare i rivoltosi in fortezze delle Alpi dai pittoreschi nomi di Bergen-Fenestrelle ed Exilles 2-Birkenau, dove già da qualche anno gli irriducibili borbonici erano costretti a bere dolcetto d’Alba e mangiare polenta concia e, sotto la direzione del Lombroso, a sottostare a pseudoscientifici esperimenti di eugenetica (si tentava di trapiantargli la testa).
La Terza guerra d'indipendenza e la presa di Roma
Quindi scoppiò la III Guerra d’indipendenza o, ormai solo per gli annalisti puri, LXVIII Guerra di espansione sabauda, che, grazie all’inedita e innaturale alleanza con la Prussia di Bismarck, le cui panzersturmabteilungdivisionen avevano letteralmente scherzato gli austriaci in Germania, mentre gli italiani pigliavano boccali di birra e pesci in faccia – a parte il solito Garibaldi che fu fermato quando, ormai a Bolzano, già aveva fondato il südtirolervolkspartei e si stava mangiando una sacher torte, per cui, richiamato da Vinuele disse il noto “Obbedisco, però vaffanculo” – fruttò alla Savoia il Veneto, il Friuli e una quantità assurda di grappa.
Quindi, qualche anno dopo, approfittando di un Bismarck che aveva deciso di picchiare tutti perché qualsiasi altro essere umano vivo gli ricordava un bambino che da piccolo gli tirava le caccole e che prese a wurstel in faccia il povero Napoleone III fatto prima prigioniero, poi esiliato e quindi morto in Inghilterra di sifilide, gli italiani occuparono all’improvviso Roma – lasciata indifesa dai francesi impegnati a casa loro (I pugnalata alla schiena alla Francia) e aiutati, non si sa bene perché, da Garibaldi, al quale avevano fottuto Nizza e il quale fu l’unico a prendere a botte i prussiani – grazie allo sfondamento a ginocchiate e gomitate di un muro da parte dei bersaglieri che, correndo, non lo avevano visto, e allo stupro di massa di una tizia che si trovava nella casa dietro il muro a fare la guardia. L’episodio fu sempre affettuosamente ricordato come Lo sfondamento di Pia, dal nome della dolce fanciulla. Poi, per ragioni di privacy, fu cambiato in Breccia di Porta Pia (LXIX Guerra di espansione sabauda).
Ciò comportò il divorzio definitivo tra i Savoia e la Chiesa, che ora li accusava di spietato imperialismo laico e progressista ai danni dei suoi parrocchiani e in particolare delle loro generose offerte (il rapporto incestuoso si sarebbe ricomposto soltanto nel 1929, grazie a quel prete di Mussolini), nonché il secondo, ennesimo, odioso spostamento di capitale, da Firenze a Roma, ovvero sempre più a sud, ormai in prossimità del tropico del Cancro, sempre col seguito di politici, cortigiane e altri animali da compagnia.
Finalmente Vittorio Emanuele II si era insediato sul trono di Roma, come un cesare, finalmente si era fatto l’Italia, gli italiani invece continuavano a farsi da soli. Di qui in avanti non c’è più molto da raccontare, per i Savoia, se non che una volta morto il re galantuomo (non si chiarì mai il perché di questo soprannome, ma si ritiene glielo abbia dato sua sorella, l’unica donna, non necessariamente vivente, che non si fosse scopato, e non perché fosse sua sorella) salì al trono il figlio Umberto I, chiamato così per distinguerlo da Un Berto I.
Umberto fu conosciuto e ricordato per l’espressione lievemente idiota e mummificata del volto, per aver sposato sua cugina Margherita, che prese il nome dalla pizza che le avevano tirato una sera a Napoli, per aver attaccato e invaso l’Eritrea (LXX Guerra di espansione sabauda) e la Somalia (LXXI Guerra di espansione sabauda) per aver preso botte da degli africani nel primo tentativo di invasione dell’Abissinia, che doveva necessariamente essere conquistata perché così era scritto, per aver stipulato un’alleanza con Germania e Austria (sempre più innaturale) in tempo di pace, ma tanto non era lui a decidere bensì Crispi – lui non c’entrava mai niente, ma tentavano di ammazzare sempre lui – per non aver avuto nessuna responsabilità quando il generale Sbava Sbeccaris fece fuoco con l’artiglieria da guerra su quattro scioperanti socialisti solo perché lo sciopero non era stato preventivamente autorizzato e per questo aver subito appunto quattordici attentati (sventati grazie alla sua prontezza sabauda di riflessi, quello buono fu il quindicesimo), per essere morto in un attentato e per aver generato un Vittorio Emanuele III, figlio di consanguinei e quindi non venuto fuori molto bene.
Vittorio Emanuele III
Vinuele III fu un’altra strana figura nell’immenso panorama sabaudo. Alto circa centoquaranta amedei, il suo peso specifico politico era inversamente proporzionale a quello in filiberti, a sua volta inversamente proporzionale a quello di Giolitti.
Difatti Vinuele, detto il Nano italiano, dichiarò guerra all’impero turco (LXXII Guerra di espansione sabauda) perché dai tempi del Conte Verde i turchi gli stavano sulle palle, conquistò quindi la Libia e il Dodecaneso, fu il primo Savoia a utilizzare l’aviazione e il bombardamento aereo con sacchi di pere, firmò il trattato segreto di Londra per ficcare la Savoia in guerra durante la I Guerra mondiale, o IV Guerra d’indipendenza, o LXXIII Guerra di espansione sabauda, sciolse la Triplice Alleanza suddetta perché ormai, finalmente, si era in guerra e quindi risultava inutile, vinse tale guerra utilizzando nuove armi come il gas, i lanciafiamme e i lanciacaldarroste, spaccando i chiodi degli elmetti austriaci e ripiantandoglieli nel culo (al costo di qualche migliaio di soldati sabaudi e qualche centinaio di migliaia di ausiliari italiani) sposò una principessa straniera, la clandestina Elena dell’Amaro Montenegro, al contrario dello Zar sedò la rivoluzione bolscevica di ottobre affidando il governo a un certo duce che si faceva chiamare Mussolini, autorizzò la sua dittatura accettando di esserne il monarca e l’uom. di pagl., in previsione di future guerre d’espansione e di futuri titoli, come lup. mannarr., per vendicare suo padre benedisse l’invasione dell’Abissinia con carri armati di alluminio e bombardamenti aerei al fosforo bianco che nessun bianco aveva mai visto prima in un conflitto coloniale, giustificando tale guerra con il lungimirante motto “Invadiamo l’Africa prima che l’Africa invada noi”, conflitto (LXXIV Guerra di espansione sabauda, “Abissiniae capta” sulle monete di Vinuele) che gli valse il titolo di Imperatore d’Etiopia (Daecreta imperialis sabaudiae, DIS sulla Gazzetta Ufficiale di Moriana, e ora anche su quella italiana) oltre a quello di re di Cipro, di Gerusalemme e d’Armenia che i Savoia si portavano dietro, non sapendo nemmeno per quale motivo, dal medioevo, titolo cui aggiunse poi quello orrendo di re d’Albania.
Infine stette semplicemente zitto quando Mussolini detto il Duce decise di esercitarsi al tiro al comunista in Spagna e anche quando lo stesso detto il Duce si alleò con Hitler detto Il Pacificissimo – il quale continuava a dire al secondo di disfarsi del primo magari affogandolo nella doccia, ma non se ne fece niente perché Mussolini temeva la rappresaglia delle SS e dei venditori di monete antiche false, di cui Vinuele III andava ghiottissimo – lo appoggiò nella promulgazione delle leggi razziali, pur essendo probabilmente ebreo, e nella sua dichiarazione di guerra alla Francia (II Guerra mondiale o LXXV Guerra di espansione sabauda, perché la Savoia conquistò la Corsica, la Provenza e la Savoia, II pugnalata alla schiena alla Francia) solo per tornare per un attimo ai vecchi tempi andati in cui i Savoia picchiavano i francesi - anche se i francesi, più o meno dalla guerra franco-prussiana, li picchiavano ormai tutti, anche le loro mogli - lo appoggiò nella guerra alla Grecia (LXXV sub a) Guerra di espansione sabauda), alla Jugoslavia (LXXV sub b) G.d.e.s.) alla Somalia Britannica e quindi all’Inghilterra, pure questa una vecchia idea, attuata con sommergibili a olio di colza o a propulsione umana, i cosiddetti “maiali” (LXXV sub c) G.d.e.s.) all’Egitto britannico (LXXV sub d) G.d.e.s.) e alla Russia (LXXV sub e) G.d.e.s.) quando finalmente l’ambizioso progetto ottocentesco dei tempi di Carlo Alberto di attaccare lo Zar fu messo in atto, anche se lo Zar adesso era Stalin, che era un po’ più stronzo. Invece la guerra agli Stati Uniti fu dichiarata a distanza:
Ma, date le distanze, fu solamente subita, quindi non comportò annessioni territoriali, nemmeno temporanee, se si esclude l’occupazione del cesso dell’ambasciatore americano a Roma da parte del federale fascista che, incaricato di consegnare la dichiarazione di guerra, venne preso dallo squaraus e quindi non risulta nella classificazione sabauda.
Infine, dopo tutti questi appoggi, dopo tutte le penetrazioni e tutte le sistematiche inculate che l’Italia subì da ogni parte, tanto che le conquiste e l’espansione duravano il tempo di una pisciata, decise di mettere fine a questa fastidiosa altalena di emozioni arrestando lo stesso Duce Mussolini e imprigionandolo dove le SS tedesche, molto più cazzute di quelle sabaude, potessero facilmente liberarlo e portarselo via.
Vinuele allora firmò l’armistizio, anche perché ormai si era ritrovato con un sedere nazista sulla faccia e un cazzo angloamericano nel culo (IV Spartizione della Savoia), fuggì da Roma lasciando tutto come aveva trovato suo nonno, e la luce accesa, e riparò infine a Brindisi, dove brindò appunto al fondoschiena salvato. Era circa l’8 settembre 1943 e.v.,da allora sarebbe scoppiata la guerra civile tra fascisti e antifascisti (I Guerra civile sabauda) e sui campi di battaglia non si sarebbe più sentito lo struggente grido di battaglia “Diu d’na madona!” ma si sarebbero comunque tirate giù molte madonne. Ma non per i Savoia.
Il referendum
Prima che la guerra finisse, il vecchio Vinuele, stanco e deluso, oltre che rincoglionito da tutte queste cazzo di guerre, lasciò la reggenza e la luogotenenza al figlio Umberto II, che la tenne fino al 1946 più o meno, cioè quando Vinuele decise di abdicare e di andarsene al diavolo ad Alessandria – Alessandria d’Egitto, perché il Piemonte era ancora un po’ incazzato con i Savoia. Ma Umberto II detto Secondo e Ultimo regnò giusto qualche settimana, fino al fatidico e anticostituzionale (perché lo Statuto Albertino non lo prevedeva) referendum tra monarchia e repubblica più volte citato che, essendo tra l’altro stato truccato da Andreotti, consegnò la vittoria per un paio di voti inventati alla causa della repubblica. Si disse che avessero fatto votare anche i dispersi della III Guerra d’indipendenza, quella del 1866, e i morti garibaldini del 1861, notoriamente repubblicani, due volte, e che negli scantinati della casa di campagna di Andreotti fossero state trovate centinaia di casse contenenti due milioni e mezzo di schede a favore della monarchia.
Umberto cercò invano di fare ricontare le schede – disse ch’era disposto a ricontarle lui stesso – continuando a dire che c’erano stati dei brogli e che il referendum era inficiato, e che finché la Corte di Cassazione non avesse comunicato i risultati definitivi lui restava il re. Ma la Cassazione era ormai infestata di degasperiani, andreottiani, amici degli andreottiani, altri ex fascisti e qualche scarafaggio comune, e se ne sbatteva. E, per timore che scoppiasse una guerra civile tra repubblicani e monarchici (sarebbe stata la II Guerra civile sabauda) che i monarchici, essendo appoggiati dalle Wafer SS, avrebbero sicuramente vinto, De Gasperi, ancor prima che la Cassazione si esprimesse a suo favore, disse che non ci poteva fare nulla, ma la Savoia era diventata una repubblica (la detestata e temutissima opzione m), merda, della Legge Salica) anzi la Savoia non era mai esistita, e Umberto doveva smammare al più presto, anzi, non sarebbe nemmeno più dovuto tornare, ma che gli lasciasse comunque in custodia i gioielli di famiglia. Finiva così un’era, la saga e la sagra dei Savoia regnanti. Ma sarebbero comunque restati vivi, a parte Vinuele che morì di lì a qualche ora.
L’esilio
Umberto II andò in esilio in Portogallo con il figlio Vittorio Emanuele IV e passò il resto della vita a vagare per i corridoi in ciabatte ripetendo “Giulio, ridammi le mie schede!” e a litigare con tutti. Poi si trasferì in Svizzera per occuparla, ma sarebbe morto prima di portare a termine gli ultimi preparativi della campagna. Lì, a Ginevra, Vinuele conobbe una certa Marina San Doria, quattro volte campionessa mondiale e novantasei volte campionessa svizzera di sci nautico e abbastanza gnocca, ma non nobile. Contro ogni legge sabauda possibile, contro ogni consuetudine e in spregio al passato Vinuele la sposò prima a Las Vegas e poi, non contento, a Teheran (lo scià era testimone, e non gli portò molto bene) venendo così immediatamente diseredato e detronizzato dal vecchio padre incazzato, non perché fosse una borghese ma perché era una svizzera. Umberto morì infine nel 1983 e, già morto, chiese di venire seppellito ad Altatomba in Savoia, accanto a Carlo Felice, perché giustamente l’Italia gli faceva schifo quanto ne faceva al suo avo. In realtà erano gli italiani che non lo volevano indietro neanche morto. La successione passò, in base all’opzione a) della Legge Salica, al cugino Amedeo Il Grato d’Aosta, ma la cosa era controversa perché vigeva ancora la Bolla dei quat P.I.C.I.U. che proibiva a un Amedeo X di regnare e di esistere, per cui o Amedeo cambiava nome, o ripartiva da I (nel qual caso avrebbe dovuto cambiare nome lo stesso perché non potevano esserci due Amedeo I, per cui si sarebbe dovuto chiamare almeno A Me Deo, mentre saltare un numero e passare quindi direttamente ad Amedeo XI non era possibile perché antisabaudo, significava ammettere un buco nel continuum millenario) o emendava/annullava la Bolla, cosa altrettanto impraticabile perché per fare questo era necessaria la maggioranza assoluta dei quat (3 su 4) e l’ultimo P.I.C.I.U. era morto nel 1565, dopodiché il consiglio era stato definitivamente sciolto da Emanuele Filiberto per incompatibilità, oppure rinunciava.
Non rinunciando e rifiutandosi di cambiare il suo bel nome, Vinuele fu in procinto di dichiarargli guerra e invadere la Valle d’Aosta penetrando in macchina dal tunnel del Monte Bianco (I potenziale Guerra di successione sabauda) ma non se ne fece nulla perché la guardia di finanza gli disse che, in base alla costituzione italiana, gli avrebbero sparato a vista. Allora lui andò al mare in Corsica e di fronte alle acque territoriali della Sardegna uccise un tedesco qualsiasi. Poi, in ordine quasi cronologico, andò in prigione, fu assolto, diventò un pappone, chiese la restituzione dei gioielli, pretese un risarcimento per l’esilio di ottantacinque miliardi di carlalbertini, disse ancora qualche puttanata e finalmente, nel 2002, dopo aver giurato con il sangue e anche un po’ di vomito sulla Costituzione, gli fu concesso di rientrare in Italia, che non era più Savoia, insieme al figlio Emanuele Filiberto II, detto anche l’Esiliato non per colpa sua perché nel 1946 non era nemmeno nato. Per il momento quest’ultimo ha fatto cagare alla moglie borghese francese due bambine, quindi già incombe lo spettro della Legge Salica e della Terza Aberrazione Sabauda, mentre Amedeo d’Aosta (che le malelingue affermano aver detto che, se il cugino Vittorio Emanuele dovesse salire al trono, sarebbe il primo caso di ricorso al punto k) della Legge) il cui motto tatuato sul dito medio destro è “Cüsta lon ca cüsta, viva Amedeo d’Aüsta”, potrebbe a tutti gli effetti rientrare nel giro, sempre se si decide a cambiare nome o se i suoi legali, per mezzo di qualche cavillo giuridico, riescono a far cassare la Bolla dei P.I.C.I.U. – anche se in questo caso il ramo sfigato sembrerebbe essere quello di partenza, con un cugino che passa il tempo cacciando tedeschi, molestando escort e giocando a strip-poker. Come detto, padre e figlio hanno fatto ricorso al TAR del Lazio in merito all’esito del referendum del 1946, ma purtroppo sembra che la decisione definitiva venga di volta in volta abilmente aggiornata per cui resta valida la disposizione costituzionale che vieta il ritorno alla monarchia e quindi a entrambi di regnare, in Italia.
Il ritorno
Una profezia del Cabaretto, e tutto quanto dice costui si avvera perché lo dice dopo che è successo, essendo immortale e vivendo quindi in qualsiasi tempo, rivela un po’ enigmaticamente e tramite oscure metafore, per non spaventare i contemporanei con inutili allarmismi, che i Savoia torneranno a regnare, in Savoia.
“Il centoquarantaquattresimo umberto Emanuele Filiberto scenderà da cavallo e brandendo la spada e la testa (sic) libererà la terra avita dagli usurpatori indegni e infedeli ricacciandoli al di là del Potomac [7] e dentro l’Ellesponto [8] così riportando l’aquila a volteggiare [9] e i vermi a strisciare [10].”
Poi un’esortazione apparentemente incomprensibile:
“Fermate il treno!”
nella quale qualcuno ha voluto vedere il Cabaretto intento a vergare queste righe mentre viaggiava appunto in treno in un futuro indefinito, forse per via di un incendio a bordo, altri invece il Cabaretto ormai preda della follia – queste sono le sue ultime parole conosciute per cui, per il momento, non si sa che fine abbia fatto.
Il messianismo del Cabaretto è comunque fuor di dubbio, e anche un po’ fuor di metafora, ma per chi crede, ha sempre creduto alle sue affermazioni, l’Emanuele Filiberto della profezia non è altri che il Testa di Ferro tornato in vita per riparare torti dando ancora una volta mazzate da ultimo dei giorni, mentre, non essendo ancora riusciti a decifrare la reale entità di un umberto, non si è potuto stabilire con precisione a che anno il Cabaretto collochi il secondo avvento del Testa di Ferro.
Per chi invece non crede, i Savoia, veterani di mille anni di guerre, anche senza regnare in Italia romperanno le palle lo stesso, particolarmente Emanuele Filiberto. A quanto pare dovrebbero essere cazzi comunque.
Note
- ^ Intraducibile unità di misura temporale variabile dei Savoia.
- ^ Corrispondenti all’incirca a ventisette centimetri.
- ^ Poi divenuto ordine di San Maurizio d’Agauno per ragioni etiche, fissato nell’odierna St. Maurice d’Agaunò appunto in Svizzera.
- ^ Poi solitamente, si assisteva al combattimento tra nani francesi e tra svizzeri e alligatori, per la gioia dei bambini.
- ^ Sempre in attesa del ricorso al TAR del Lazio.
- ^ Circa duecentottanta chili.
- ^ Qualche interprete ha qui voluto vedere il Po, altri il Ticino, altri ancora il Potomac di Washington, ma quest’ipotesi sembrerebbe inverosimile.
- ^ Probabilmente il Mar Ligure, o il Lago Maggiore, o forse il Lago di Ginevra.
- ^ Si pensa all’aquila sabauda.
- ^ E qui le congetture sarebbero davvero troppe.
Voci correlate
- Risorgimento
- Guerre d'indipendenza
- Giuseppe Garibaldi
- Vittorio Emanuele II
- Emanuele Filiberto
- Vittorio Emanuele di Savoia
- Italia amore mio
- Neoborbonici